martedì, maggio 03, 2005

Leggere con lentezza

Quello che segue è forse il “periodo lungo” o “periodo lento” più famoso della Ricerca. Sulla scrittura proustiana, la cui densità è stata definita, da alcuni critici, “elefantiaca”, o “antioratoria”, fatta di periodi di estrema lunghezza e complessità, sono stati scritti numerosissimi saggi. Il periodo proustiano è stato analizzato, scomposto, smontato; Leo Spitzer l’ha addirittura suddiviso in vari tipi, il periodo “ad esplosione”, quello “a ramificazione”, o “ a stratificazione”; mentre il critico Franco Simone, sulla rivista fiorentina Letteratura nel 1947 ha notato come – nel brano qui di seguito pubblicato - attraverso il ritmo della scrittura Proust evochi immagini (le due camere, quella d’inverno e quella d’estate), atmosfere, sensazioni (caldo-freddo, il nido come rifugio) che ci comunicano le impressioni di un uomo – lo scrittore – enormemente sensibile, durante il risveglio mattutino.
La scrittura lenta proustiana è fortemente in controtendenza rispetto agli stili di molti autori contemporanei. Oggi le pagine dei romanzi sono crivellate di punti, i periodi sono brevissimi, spesso spezzati in due, tre parti (esempio, una frase come “andò a casa e si preparò un caffè” diventa “andò a casa. Si preparò un caffè), troncati da a-capo continui, mentre la pausa intermedia del punto e virgola è quasi sconosciuta. Sembra di assistere a un rifiuto della scrittura intesa come ricerca, come atto di coraggio, come sfida estetica. Leggere con lentezza i periodi lunghi di Proust è dunque una fantastica palestra intellettuale che aiuta la mente a mantenersi elastica e ricettiva, funzioni sempre più minacciate dall’avanzare implacabile dell’omologazione. Leggere con lentezza La Ricerca è terapeutico, è avantgarde; è un ottimo antidoto contro il nuovo conformismo stilistico di molti autori degli anni 2000.

“Ma avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, il bordo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei Débats roses, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitamente; dove, quando il tempo è glaciale, il piacere che si prova è di sentirsi divisi dal mondo di fuori (come la rondine marina che ha il suo nido al fondo d’un sotterraneo nel calore della terra), e dove, mantenendosi acceso il fuoco nel camino tutta la notte, si dorme in un gran mantello d’aria calda e fumosa, percorsa dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, una specie d’impalpabile alcova, di calda caverna scavata in seno alla camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, aerata da aliti che ci rinfrescano il viso, e vengono dagli angoli, dalle parti più vicine alla finestra o lontane dal focolare e divenute fredde; - camere estive dove piace unirsi alla notte tiepida, dove il chiaro di luna, venuto a posarsi sulle imposte socchiuse, getta fino al piede del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cinciallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio; - a volte camera Luigi XVI, così allegra che neppure la prima sera non mi ci ero sentito molto triste, dove le colonnette che sostenevano leggere la volta con tanta grazia si scostavano a mostrare e serbare il luogo del letto; a volte invece quella, piccola e col soffitto molto elevato, scavata a forma di piramide nell’altezza di due piani e in parte rivestita di mogano, dove fin dal primo momento ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto della gramigna indiana, convinto dell’ostilità delle tende viola e dell’indifferenza insolente della pendola che cicalava forte come se io non ci fossi stato; - dove uno strano e spietato specchio quadrangolare, a bilico, sbarrando di sbieco uno degli angoli della stanza, si apriva a forza nella dolce pienezza del mio ordinario campo visuale un posto che non vi era preveduto; - dove il mio pensiero, sforzandosi per ore e ore di estendersi, di innalzarsi per prendere l’esatta forma della stanza e giungere a riempire fino all’alto il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte notti penose, mentre me ne stavo disteso nel letto, con gli occhi alzati, con l’orecchio ansioso, la narice restìa, il cuore che batteva: fino a quando l’abitudine non avesse mutato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non messo in fuga interamente, l'odore della gramigna indiana, e diminuito in modo notevole l’apparente altezza del soffitto”.

(traduzione di Natalia Ginzburg)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

È da riscoprire la lentezza? Di sicuro è da riscoprire la lettura lenta -fatta di sforzo nel trovare il ritmo; per sentirsi in compagnia dei pensieri che sorgono; per evitare di farsi continuamente travolgere dagli tsunami di immagini che portano all'assuefazione di ogni cosa perchè tanto arriveranno le successive: sempre diverse, uguali, sempre senza senso. In Proust le parole hanno un respiro, una vita. I suoi periodi sono i giardini che queste parole abitano -il mondo paralleo di cui sempre siamo in cerca. Con Proust si scopre definitivamente che significa il fatto di essere lettori di sè stessi nel momento in cui si apre un libro. Con Proust si impara insomma a respirare -a pieni polmoni. Sì Proust è avantgarde, è terapeutico. E Proust sorride della velocità (lui uno dei primi a possedere un'automobile; innamorato di un aviatore) e ci mostra come tutto sia un problema di sguardo (l'immobilità delle cose come immobilità del nostro pensiero di fronte ad esse).
Ma Proust non è lento. E non sono veloci i contemporanei per il fatto di evitare le pause, i punti e virgola o di ridurre la lunghezza dei periodi... Lo spezzano, questo sì. Lo digitalizzano, poichè questo è il formato attuale. Eppure in Proust, trovato il ritmo, si scorre davvero via senza freni. Abbonda di particolari certo: perchè li osserva (o li "analizza") e li fa parlare. Perchè questi sono come i racconti delle Mille e una notte che costantemente si incastrano e si aprono l'uno nell'altro. Perchè sopratutto in lui esiste ancora il viaggio (la curiosità!), ciò che c'è tra un punto di partenza ed uno di arrivo -mentre oggi tutto questo è cancellato. Al mattino caffè a Milano, la sera aperitivo all'Avana: poi torniamo e diciamo di avere visto il mondo... Proust non è "antiorario", è l'abolizione dell'orologio e del tempo (che non sia quello narrato) tout court.

maline

Anonimo ha detto...

Bellissimo il tuo intervento, maline, anche se sono senza fiato. Nel senso che non avevo mai letto un periodo come questo, così lungo e senza un punto. Non ho mai letto Proust, ma devo confessare che mi spaventa. Deve essere molto impegnativo e difficile per le mie povere forze di lettore. Chissà che in futuro...

Anonimo ha detto...

Caro anonimo 2, cominciai a leggere Proust a 18 anni: mi arenai al secondo volume (All'ombra delle fanciulle in fiore). Ma mi perseguitò... Alcuni anni dopo lo ripresi e, come per magìa, non riuscii più a fermarmi. Sono ormai arrivato alle terza lettura e so ormai che almeno una quarta ne seguirá. A volte è semplicemente così, che certi libri hanno il loro tempo. Come lo stesso Proust già individuava, ci sono libri che rimangono sullo scaffale per anni e ci guardano e poi un bel giorno ci chiamano, come fossero sirene, e lì diviene difficile sottrarvisi. Siamo sempre meno abituati a qualche cosa che ci impegni per diverso tempo; abbiamo sempre "paura" di non star dietro, come dicevo nel precedente intervento, agli tsunami di notizie ed immagini che ogni giorno ci invadono e ci violentano; abbiamo l'impressione (falsa -ma è un mio punto di vista) di perdere sempre qualche cosa, nel quotidiano, che "potrebbe" essere importante -ach questo timore di non essere up to date!. Il risultato è che abbiamo sempre meno tempo per noi stessi: per crescere, per godere, per maturare (a qualsiasi età). Leggere Proust non è obbligatorio; leggerlo non significa essere più intelligenti, più colti, più "bravi". Leggere Proust, come ben dice Baldrus, aiuta però e può davvero cambiare (come suona il titolo di un libro di Alan de Bottom sulla Récherche) la vita.
Un saluto.

maline